Il bonus bebè? «Spero ci siano margini per modificare la manovra, perché è una di quelle azioni a sostegno della genitorialità e della natalità che tra l’altro va a mettere un rimedio ai temi delle disuguaglianze, soprattutto per le famiglie che pagano un prezzo più alto, in particolar modo per quelle svantaggiate». Così ieri il ministro della Salute Beatrice Lorenzin. D’accordo, speriamo. Però ragioniamo. Intanto, suvvia, non pensiamo che basti pronunciare le parole “bebè” o “bonus” per provare che il Governo si stia occupando di famiglia. La realtà è che siamo a livello di inutili briciole, frammentate e pasticciate. Mentre L’Italia, al contrario, dovrebbe preoccuparsi seriamente di come contrastare la voragine demografica dovuta al calo delle nascite. Non vedo alcuna novità sul fronte famiglia. Continuiamo a essere miopi, senza occhiali, nelle nebbie della mediocrità. I nostri decisori pubblici non decidono, non sanno decidere: perché non guardano lontano.

Mastica amaro anche la sociologa Chiara Saraceno. Lo ha scritto su la Repubblica pochi giorni fa, senza mezzi termini. E mi ha colpito:  la famiglia è dimenticata.  «Se si fosse voluto davvero costruire un pezzo sensato di politiche famigliari per compensare una parte del costo dei figli – dice la studiosa -, sarebbe bastato approvare una proposta di legge di iniziativa dei senatori, presentata un anno fa, intesa a razionalizzare la spesa che si perde in mille rivoli inefficaci unificandola in un un’unica misura, un assegno periodico per i figli sino alla maggiore età, universale ancorché decrescente con il crescere del reddito famigliare. L’occasione era stata già persa lo scorso anno quando, invece di battersi per una riforma organica, anche i “sostenitori della famiglia” si accontentarono di potersi vantare di aver ottenuto un ennesimo bonus. Passato un anno senza che nulla sia stato fatto e che neppure si sia aperto un confronto, lo stesso copione viene riproposto. Non è così che si sostengono le famiglie con figli né tanto meno s’incoraggia la scelta di fare un figlio (in più)».

La Saraceno fa riferimento al cosiddetto Ddl Lepri, dal nome del primo firmatario, il senatore piemontese del Pd Stefano Lepri , che è uno dei parlamentari del Pd più attenti al tema famiglia anche se Matteo Renzi, benedetto ragazzaccio, lo ascolta poco. Però mi ha colpito per una reazione avuta in un accesso dibattito pochi giorni fa nel Torinese e proprio su questi temi. Il quoziente familiare – ha sbottato Lepri con uno dei suoi – è «incostituzionale».  Intanto – visto che è pure il nome di quest blog – ricordiamo che cos’è. È un modo con cui il Fisco può considerare la numerosità del nucleo familiare nella tassazione del reddito (per esempio, in Francia, accade dagli anni ’50 del secolo scorso). In pratica l’imposta viene calcolata in base a un coefficiente (il quoziente familiare) in cui rientra – oltre al reddito complessivo della famiglia – anche il numero delle persone che la formano. Si sommano tutti i redditi del nucleo familiare e si divide il totale per il numero dei componenti, eventualmente corretto con un fattore fisso per tener conto dei risparmi di cui le famiglie possono godere all’aumentare del numero dei componenti (per esempio una gestione più efficiente dell costo dell’abitazione). Ne viene fuori una aliquota percentuale che si applica a tutti coloro che generano reddito in famiglia. C’è tutta una tecnica fiscale, ovviamente, ma la sostanza è questa. Giusto o sbagliato? C’è chi risponde: sbagliato. In presenza di un sistema di aliquote progressive, osservano gli esperti, il quoziente familiare potrebbe essere “distorsivo” e favorire chi guadagna di più: nel caso di una famiglia senza figli, il coniuge con il reddito più alto ci guadagna perché non paga l’aliquota marginale più elevata, l’altro, al contrario, viene costretto a partire da un’aliquota marginale superiore a quella di chi guadagna come lui (o come lei). Giusto o sbagliato?

Sta di fatto che nel 1976 la nostra Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionale il cumulo dei redditi, paradossalmente proprio quando il nuovo diritto di famiglia fresco di riforma lo basava sulla sua unità economica. Cosicché il quoziente familiare alla francese non può essere applicato, perché l’imposta sul reddito non può “colpire” il nucleo familiare. Giusto o sbagliato? Sbagliato, mi viene da rispondere. Il punto è che i casi possono essere moltiplicati e portare a considerazioni opposte: a parità di reddito, per esempio, una famiglia monoreddito paga di più della famiglia che raggiunge la stessa cifra con due redditi diversi, pur avendo magari uno o più figli (e anche perché magari con capisce come detrarre eventuali spese, visto che da noi è una giungla di leggi, leggine e disposizioni che pure un commercialista provetto annaspa). Giusto o sbagliato? Il nostro Parlamento non ha mai legiferato in merito a una tassazione più attenta alla composizione della famiglia. E non si è mai neppure posto il problema più di tanto, il che è grave. «Comunque sia il quoziente familiare è incostituzionale, c’è solo in Francia ed è fiscalmente regressivo cioè aiuta i ricchi – incalza Lepri -. Infatti in Francia esistono la patrimoniale ed alte tasse di successione. Altri limiti li ha anche il fattore famiglia. L’assegno unico e universale è la migliore soluzione per equità, come in Germania, Gran Bretagna e Canada».

Giusto o sbagliato? Bisognerebbe approfondire il tema tenendosi molto alla larga dalle campagne elettorali. Questa legislatura, l’ennesima, è andata persa. Detto questo, io penso che il divieto di cumulare i redditi famigliari presupponga una concezione individualistica della famiglia ed è lì che si annida un limite grave e di prospettiva per un Paese che vuole crescere trovando una strada sia per la svolta demografica sia per lo sviluppo. Infatti si potrebbe sostenere il contrario di quello che la Consulta ha sentenziato nel 1976: citando gli articoli 3 e 53 della nostra Carta fondamentale, che parlano di rispetto dei princìpi di uguaglianza e di capacità contributiva. Poi, certo, bisogna stare attenti al dato economico (quanto costa? è una spesa o un investimento?), a correggere i gli eventuali effetti “distorsivi” e a quant’altro. Ma che la Francia, sulle politiche per la famiglia, sia molto più avanti di noi – e da decenni – è innegabile. C’è bisogno assoluto di una riforma complessiva della fiscalità familiare. Ne parla e ne scrive con intelligenza il demografo Gian Carlo Blangiardo, docente a Milano Bicocca: se avete un attimo di tempo provate a leggere quanto ha scritto sull’altra crisi (lo ha fatto al convegno Sussidiarietà fra crisi demografica, immigrazione e nuove politiche di welfare che si è tenuto in ottobre a Milano; cliccate qui). Giusto o sbagliato? Secondo voi?

4 COMMENTI

  1. La famiglia quale unita’ di fatto non si identifica ne’ con quella “classica”, caratterizzata dalla coabitazione (nel senso lato di “consorteria”, di messa in comune delle risorse di ogni componente) di soggetti di differenti fasce etarie sotto lo stesso tetto, legati da vincoli di parentela nella stragrande maggioranza dei casi diretta (ascendenti e discendenti), per di piu’ nella stragrande maggioranza dei casi di primo grado (genitori e figli). Gia’ per questo motivo, prendere la famiglia, sia pure di fatto, quale punto di riferimento per integrare un presunto gap tra le risorse comuni della medesima e i rispettivi bisogni puo’ rivelarsi distorsivo; per di piu’, sarebbe anche socialmente iniquo per le ragioni che, a proposito delle famiglie senza figli, si leggono nel pezzo. Non puo’ neanche sottacersi il fatto che la forma “liquida” in cui strutturano le aggregazioni sociali di tipo familiare osta non poco a che si possa identificarle con sufficiente precisione. Infine, non e’ detto che i membri dell’aggregazione sociale in cui un bambino vive provvedano (quantomeno completamente) al di lui sostentamento.

    Mi sembra anche che ci sia un certo consenso sul fatto che occorre “razionalizzare la spesa sociale, che si perde in mille rivoli inefficaci”, con costi di gestione del sistema troppo elevati, soprattutto rispetto alle risorse distribuite.

    Penso quindi che bisognerebbe fare un salto di qualità nell’implementazione delle politiche sociali. Innanzitutto, bisognerebbe una buona volta per tutte accantonare l’idea di identificare “nuclei”, “aggregazioni” bisognose di assistenza, e concentrarsi sul singolo individuo. Inoltre, prendendo il toro per le corna, i soggetti cui erogare assistenza si dovrebbe identificare sulla base di un unico criterio: l’insufficienza delle loro risorse (sotto il duplice profilo del reddito e del patrimonio) rispetto ai bisogni di un ipotetico “individuo tipo” che si trova in una situazione, non solo economica, assimilabile a quella del caso di specie.

    Insomma, penso ad un sistema “a punti”, in cui per ogni persona viene calcolato un “livello minimo di risorse necessario alla sussistenza”, considerando, tra le altre cose, il suo reddito, il suo patrimonio, le condizioni di salute, l’effettiva possibilita’ di accedere ai servizi pubblici, l’eta’, etc. etc. Una volta calcolato questo valore, al soggetto le cui risorse non raggiungono tale livello minimo dovrebbe essere erogata un’integrazione rapportata alla misura di questo gap.

    Questo sistema dovrebbe poi essere completato dall’erogazione gratuita per tutti di determinati “livelli minimi di assistenza” in termini di servizi (sostanzialmente cure mediche ed istruzione).

    Inutile dire che l’efficienza e il grado di equita’ di questo sistema sarebbero massimizzati dall’implementazione di una riforma fiscale che si ponga l’obiettivo di razionalizzazione del sistema, con la concentrazione del prelievo fiscale sul reddito e sul patrimonio individuali, e l’effettiva applicazione del principio costituzionale di progressivita’ (che attualmente e’ solo sulla carta, basta pensare all’incidenza sul prelievo fiscale complessivo delle imposte sui consumi che sono intrinsecamente regressive).

    Ovviamente sono andato giu’ con la scure, ma sostanzialmente l’idea e’ quella che ho scritto.

    • Gentile Luigi Marcuccio, grazie per il suo contributo. L’importante è che si parli di questi temi, che si ragioni e che i decisori pubblici prendano una strada il più possibile condivisa che non sia soltanto voto di scambio sotto varie forme camaleontiche.

  2. “I nostri decisori pubblici non decidono, non sanno decidere: perché non guardano lontano”: secondo me stanno decidendo, solo che privilegiano la fascia over 60… (“tanto poi i nonni fanno da welfare a figli e nipoti”)

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