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Bauman e il valore delle relazioni familiari

28 Gennaio 2017

Ho avuto modo di dialogare recentemente con Zygmunt Bauman, il grande sociologo polacco scomparso agli inizi di gennaio. Una persona squisita, entusiasta della vita, nonostante i drammi attraversati durante la sua lunga esistenza. Ho imparato molto, in questi anni, dai suoi testi e dalla sue riflessioni sulle relazioni e sui legami (riporto qui da YouTube, per esempio, un suo intervento sulla “famiglia nella modernità liquida” del 27 maggio 2011 a Padova nell’ambito dell’iniziativa “Segnavie”).

Ricordo – proprio adesso che si discute molto su fedeltà e infedeltà – una intervista a la Repubblica di qualche anno fa in cui ragionava dell’amore liquido. «Il mercato ha fiutato nel nostro bisogno disperato di amore l’opportunità di enormi profitti – ammoniva Bauman -. E ci alletta con la promessa di poter avere tutto senza fatica: soddisfazione senza lavoro, guadagno senza sacrificio, risultati senza sforzo, conoscenza senza un processo di apprendimento». Invece, insisteva con passione, «l’amore richiede tempo ed energia. Ma oggi ascoltare chi amiamo, dedicare il nostro tempo ad aiutare l’altro nei momenti difficili, andare incontro ai suoi bisogni e desideri più che ai nostri, è diventato superfluo: comprare regali in un negozio è più che sufficiente a ricompensare la nostra mancanza di compassione, amicizia e attenzione. Ma possiamo comprare tutto, non l’amore. Non troveremo l’amore in un negozio. L’amore è una fabbrica che lavora senza sosta, ventiquattro ore al giorno e sette giorni alla settimana».

Certo, il concetto ineliminabile di “liquidità” ha anche i suoi limiti nel nostro Occidente. Bauman ci ha fatto guardare la modernità con occhi diversi, ma gli effetti perversi della globalizzazione stanno rimbalzando su una realtà che è invece dura, spigolosa e solidamente egoista. Con opportuna lucidità il filosofo Remo Bodei ne ha scritto pochi giorni fa sulla Domenica de Il Sole 24 Ore: «Si direbbe che il nostro tempo cominci a somigliare, in misura inquietante, agli anni Trenta del Novecento, con il ritorno dei nazionalismi e del protezionismo e con la richiesta di chiusura delle frontiere. Anche l’Occidente si sente meno liquido. Avanza l’esigenza di un nuovo senso di responsabilità e aumenta la consapevolezza della drammaticità delle decisioni». Chissà se The Donald, la sua patinata famiglia allargata e i suoi ringhiosi stretti collaboratori, ne sono coscienti.