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Vi racconto di Isacco, del ciarlatano e delle mie «Radici»

19 Marzo 2018

di Davide Demichelis

Non avevo mai pensato di fare il ciarlatano, nella mia vita. E ancora oggi, dopo un quarto di secolo di professione, non so per quanto avrò ancora la fortuna di farlo. Per tanto, spero. D’altronde, quando si lavora per conto proprio, da libero professionista, free lance, «del doman non v’è certezza», soprattutto in questo campo, soprattutto in Italia. Ma ho voluto la bicicletta e sono felice di pedalare!

Ciarlatano, definiva così questo splendido mestiere («sempre meglio che lavorare») un mio caro amico: Isacco Cairus. Ottantacinque anni vissuti a rotta di collo, oltre che di ginocchia, sulle montagne della Val Pellice, fra capre e vacche. Tutte le mattine ascoltava un’ora di rassegna stampa, su Radio Radicale, per sapere cosa succedeva giù, ma scendeva il meno possibile dalle sue montagne. Guardava il mondo dall’alto di Cuccuruc, una frazione a novecento metri d’altezza. Isacco se n’è andato, due anni, fa, ma la sua definizione me la tengo stretta, con tutta l’amorevole ironia con cui me l’ha affibbiata.

Con Frances Lamour ad Haiti

Anch’io ho guardato tante volte il mondo dall’alto, proprio come in questo momento: guardo l’Oceano Atlantico da undicimila metri d’altezza. Lo sto sorvolando per andare ad Haiti, a girare un documentario per Radici, il programma di Rai3 in cui raccontiamo le storie degli immigrati che vivono in Italia. Mi guiderà in questo viaggio Frances Lamour, che da Port-au-Prince è approdata in Italia per studiare ed oggi è felicemente sposata e residente a Lovero, un paesino di seicento anime in provincia di Sondrio, Valtellina. Frances ha una sorella e due nipoti a Miami. Avremmo potuto andare a trovarli prima di approdare nell’isola di Hispaniola. E invece no: voliamo diretti verso Haiti. E lo facciamo solo per non correre rischi con la dogana degli Stati Uniti, sempre più ostica, soprattutto quando ci sono di mezzo telecamere e giornalisti.

Il mondo si sta chiudendo sempre di più, e così gli spazi per l’informazione.

Quattro anni fa ero al Festival del Giornalismo di Perugia. Pranzo con alcuni dei più noti inviati italiani della carta stampata: Giovanni Porzio, Mimmo Candito, Massimo Alberizzi. Fra una chiacchiera e l’altra raccontavano come hanno iniziato a coltivare la passione per questo mestiere. Chi andando in autostop in Afghanistan, chi navigando in solitaria il fiume Congo, chi attraversando in moto diversi Paesi latinoameicani. Erano i favolosi anni Sessanta. I giovani di oggi queste esperienze non se le possono più permettere. E non è questione di soldi.

La terza guerra mondiale, anche se a pezzi, come dice Papa Francesco, rende impossibile attraversare molte zone del pianeta che un tempo erano paradisi aperti a tutti: Afghanistan, Iran, Yemen, Repubblica Democratica del Congo, Somalia, Eritrea, Nigeria sono solo alcuni dei tanti esempi. No: non si stava meglio quando si stava peggio! Il mondo ha fatto registrare molti, positivi progressi, le distanze si sono accorciate grazie a comunicazione e trasporti, ma le divisioni si stanno accentuando, soprattutto negli ultimi anni. Comunicazioni più facili e frontiere più chiuse, sembra questa la linea di tendenza. E, soprattutto, sempre più paura del diverso, soprattutto se straniero.

Il privilegio dei giornalisti

Anche l’interesse per quello che accade fuori dai nostri confini, sembra costantemente scemare. E dire che gli esteri, in italia, hanno sempre avuto poco spazio. Ma può andare ancora peggio… Nel 2011, quando è stato ucciso Gheddafi, in Libia c’erano solo tre giornalisti italiani che lavoravano per grandi testate: Stampa, Repubblica e Panorama. Erano tre collaboratori esterni, tutti e tre in pensione. I media non vogliono spendere soldi per mandare i loro dipendenti a spender soldi in giro per il mondo. Ecco perché mi sento un privilegiato: posso ancora passare dieci ore schiacciato su un aereo per andare dall’altra parte del mondo a seguire la storia di una persona, oltre che del suo Paese e soprattutto della sua gente.

Haiti poi, “l’isola degli schiavi”, racchiude in sè un bel pezzo della storia del pianeta, della nostra storia.

Gli africani che vivono qui non sono venuti da soli, li hanno deportati dal Benin e dal Togo per lavorare nelle coltivazioni di canna da zucchero, dopo lo sbarco di Cristoforo Colombo. Aiutiamoli a casa loro, dicono. Ma se non li avessimo sradicati dalle loro terre, forse non ce ne sarebbe stato bisogno. Nessuno ne avrà mai la controprova. Quel che è certo è che l’interdipendenza, che ha fatto la storia dell’umanità, non può essere cancellata in un attimo, con un colpo di spugna.

Ecco perché chi fa informazione non può dimenticare il mondo che abbiamo in casa (i cosiddetti “nuovi italiani”, più dell’8 per cento della popolazione italiana) e quello che c’è oltreconfine. Così come non dovremmo dimenticare gli italiani che vivono all’estero, che sono, guarda un po’, più numerosi di noi che viviamo in patria.

Non dovremmo solo essere i “cani da guardia del potere”, ma anche quelli delle coscienze.

Ricordare alla mitica casalinga di Voghera, e non solo, che non esiste solo il mio ombelico, la mia cerchia di amici o al massimo la mia città, ma un mondo intero, che si muove, veloce, intorno a noi. Dobbiamo ricordarlo a chi legge ancora i giornali, a chi ascolta la radio, guarda la tv, ma anche a chi naviga solo su internet e distingue le voci autorevoli dai fake. Ognuno può farlo a modo suo. Io, finché posso, pedalo. Felice di fare il ciarlatano.