Della maternità e di altre questioni, infantilismo e povertà
18 Aprile 2017
Altra figlia, altro capitolo. I nostri quattro sono splendidamente diversi l’uno dall’altro. Unici e irripetibili, insomma. Ele è la seconda, ma è stata la prima femmina, per cui scatta qualcosa di particolare, in un padre. Sentimenti, sensazioni. Dopo l’estate prenderà una laurea in Ostetricia. Litighiamo spesso e volentieri, ha un caratterino infiammabile, le diciamo che ha la passion du malheur, ringhiamo, ci riconciliamo e poi tutto daccapo, ovvio. Per colpa del mio amato-odiato lavoro capita che parliamo in orari strani: io di ritorno dalla redazione, lei da un tirocinio (vive in un’altra città, dove frequenta università, ospedali, consultori, ambulatori).
Ragioniamo di questioni serie, non semplici. La apprezzo, si prende carico di situazioni complicate. Magari s’incasina, ma lo fa. Imparo da questa sua voglia di vita. Già anni fa, quando aveva iniziato a girare nelle corsie di alcuni reparti vestita da clown, con il naso rosso e gli zoccoli colorati, insieme a quelle belle e curiose creature di varie età che da volontari danno sostanza e volti ai Vip (Viviamo in positivo). Una filigrana che attraversa la sofferenza: all’Infantile, per esempio, da cui tornava e torna spossata, non per i bambini che fa sorridere, ma per i genitori di cui ascolta angosce e preoccupazioni. Nickname: clown Noa.
Adesso Ele mi racconta delle partorienti. Attempate, sempre di più (la crisi economica, certo; sovente, però, il frutto di un certo egoismo: prima carriera e lavoro, poi forse…). Questione centrale la maternità: i figli non sono un diritto, invece c’è chi li pretende a ogni costo o, peggio, li fa – scellerata via – per provare a salvare una relazione. Qualche puerpera suona il campanello nel cuore della notte: «Piange, tenetevelo, io debbo riposare». Lei s’inalbera.
Se non si sostiene la famiglia (fiscalmente, con politiche di ampio respiro) si genera un infantilismo della società, che sarà popolata da adulti immaturi (se va bene) o disturbati psicologicamente. Stiamo sopprimendo il futuro.
Mia figlia è lì, fragile e forte, in questo crocevia che è un osservatorio di come siamo conciati in Italia. Ci sono povertà e storie inimmaginabili, drammi. Ragazze under 18 al secondo aborto, bambine che sfiorano la maggiore età accompagnate da uomini quarantenni e oltre che non sono i loro padri. «Si fa presto a dire famiglia», ha scritto opportunamente Massimo Recalcati. Ele incalza: «E in certi casi, papà, come fai a dire che l’interruzione di una gravidanza non devi neppure considerarla?». E ancora: una educazione sessuale che non esiste (lo vede andando anche nelle scuole), la sanità con i suoi colossali problemi gestionali. «Che cosa potrei fare, papà, una volta laureata?».
Mi dice tutto questo e snocciola altri temi ancora (dall’utero in affitto alla obiezione di coscienza alla bioetica). Non ho risposte su ogni fronte aperto, sono punti delicati e controversi. Arranco. Abbozzo idee, annodo fili. So che pensa anche all’Africa. A un ospedale in Burkina Faso, a Nanoro, dove c’è bisogno come il pane di medici e ostetriche che aiutino le donne e le ragazze africane (e dove un indimenticato Gianni, uomo straordinario e ginecologo dal grande cuore, scomparso troppo presto, ci ha fatto capire come si può “restituire” in silenzio a chi ha necessità). Chissà. Buon cammino, coraggio e grazie, Eleonora. #ascoltiamoifigli