Innovazione sociale e terzo settore possono ancora cambiare il mondo?
13 Aprile 2020
Innovazione sociale e terzo settore al tempo del Coronavirus. «Possiamo cambiare il mondo»: l’ho scritto tre anni fa sulla parete lavagna che occupa una parte della mia camera da letto. Ero arrivata a Torino da poco, senza sapere quanto sarei restata, ma certa che alcune cose sarebbero rimaste sempre le stesse. Tra queste, la voglia di cambiare le cose in meglio.
Innovazione sociale e terzo settore
Quando ho scelto di studiare Scienze politiche e relazioni internazionali, quattordici anni fa, ero convinta che del mio aiuto ci fosse bisogno in Paesi lontani: in America Latina, in Africa e in India; tutti posti che mi sono sforzata di conoscere durante gli anni dell’università. Finché, nel mezzo di un temporale, in una giornata afosa di agosto, ad Abidjan, successe qualcosa. «Dobbiamo solo aspettare che passi», rispose un’infermiera ivoriana alla mia insistente richiesta di attraversare il giardino sotto la pioggia (che continuava incessante da 40 minuti) per tornare al padiglione dove prestavamo servizio. Quell’attesa, quella “non azione” sottomessa a circostanze esterne non era da me, e non lo sarebbe mai stata.
In poco tempo capii che c’erano troppe cose, in quella società, che non comprendevo; tanti valori e attitudini che non erano miei. Dopo qualche tempo mi resi conto che non potevo aiutare restando così estranea, così straniera. La cooperazione internazionale poteva fare per me solo se avessi accettato di immergermi completamente in un’altra cultura e in un’altra visione del mondo.
Abidjan, gli Usa e la resa dei conti
Ci pensai a lungo e la vita, alla fine, decise per me. Così mi ritrovai a lavorare negli Stati Uniti per un progetto di innovazione sociale. Da lì la strada – prevalentemente italiana – verso il mondo del terzo settore, dello storytelling e dell’imprenditoria sociale fu breve, ed è ciò che mi ha caratterizzata negli ultimi otto anni.
In questi giorni di Coronavirus ho sentito spesso parlare di “tempo sospeso”. Vedo più una resa dei conti, un tempo di bilanci in cui, finalmente fermi, possiamo contemplare i nodi che vengono al pettine. Si tratta di una riflessione necessaria, che nel mio caso, riguarda il terzo settore.
La prima questione, a mio avviso, è legata a chi ce la farà, a quali, delle oltre 300mila organizzazioni no profit presenti in Italia, reggerà oltre questo shock sistemico.
- Resisteranno quelle con più patrimonio, con più progetti attivi o con un pool di volontari disposti a lavorare gratuitamente? Oppure ce la faranno quelle consolidate, inserite in una rete?
- Che ruolo avranno i “problemi”, ovvero quelle situazioni difficili che le organizzazioni del terzo settore si proponevano di risolvere.
- Vincerà la logica del più forte o alle organizzazioni verrà riconosciuto un peso specifico diverso a seconda della crucialità dei temi che si trovano ad affrontare?
Finanziamenti e investimenti
La seconda questione è legata ai finanziamenti che oggi tengono in vita molte organizzazioni del terzo settore.
- Che cosa succederà, per esempio, nel mondo dei bandi, ora che tanti enti erogatori hanno deciso di destinare gran parte dei fondi all’emergenza, in particolare nei settori medici e assistenziali?
- Quale ruolo avrà il fundraising privato (del quale forse non tutte le organizzazioni hanno ancora capito l’importanza) in un futuro dove, di sicuro, le risorse saranno più scarse
Il terzo punto riguarda l’imprenditorialità e gli investimenti. Qui la nota si fa dolente, e riguarda la sostenibilità nel tempo delle organizzazioni no profit.
- È arrivato il momento di puntare sugli investimenti, abbracciando anche il rischio che da sempre ad essi è connesso?
- C’è bisogno di un nuovo coraggio, ora che le azioni caute non sono più sufficienti?
- Dobbiamo, finalmente, ammettere il fallimento nel nostro universo di azione?
Investire sul futuro
Il quarto punto riguarda l’equilibrio tra la volontà di mantenere bassi i costi di struttura e la necessità di investire per il futuro. Più si investe, più si guadagna: è una chiara regola del mercato. Perciò:
- Conviene continuare a investire poco sul rafforzamento strutturale delle organizzazioni del terzo settore?
- Che futuro si può immaginare per realtà piccole e frammentate che stanno cercando di far fronte a problemi enormi?
Le persone e le relazioni
L’ultimo punto è il più critico. Riguarda le persone. Investire sulle persone è, sulla carta, uno dei valori delle organizzazioni no profit. Eppure, nella maggior parte dei casi, questo trattamento non si applica agli stessi dipendenti, sottopagati, e ai volontari, in una cultura d’impresa dove una giusta retribuzione viene quasi ritenuta “eticamente scorretta”, e non pensata come un modo per lavorare meglio, produrre di più e con più alta qualità.