Vai al contenuto Vai al menu

«Dopo». La morte, la questione che non intendiamo affrontare

27 Novembre 2020

«Dopo». La morte: è la questione che non intendiamo affrontare?

«Siamo gli ultimi cristiani?». Chissà se ha ragione un teologo – vista lunga e cuore grande – come il canadese Jean-Marie Tillard, che giusto vent’anni fa si domandava se per caso l’esperienza storica del cristianesimo, così come l’abbiamo conosciuta e registrata trasformarsi nel corso di venti secoli, fosse ormai agli sgoccioli[1].

«Dopo». La morte è la questione che non intendiamo affrontare

Non il primo né l’ultimo, certo. Tillard lo faceva in primo luogo sulla scorta di alcune spie ben riconoscibili già allora in un tessuto ecclesiale stanco e sfilacciato, e rese oggi ancor più palesi da vorticose e mal gestite dinamiche di secolarizzazione: dal drastico calo delle vocazioni religiose, presbiterali e pastorali al crollo verticale della partecipazione alla pratica delle funzioni liturgiche (per inciso, ulteriormente diminuite in questo tempo di pandemia globale), fino alla crescente difficoltà a trasmettere ai Millennials il senso di un’appartenenza che sino a  poco prima, nel quadro del cosiddetto regime di cristianità e nei paesi tradizionalmente cristiani, appariva cosa ovvia e socialmente legittimata. Naturale come l’aria che respiriamo senza pensarci sopra.

La sua risposta era che forse il cristianesimo non starebbe per esaurire la sua spinta propulsiva, come si usa dire per altri contesti, ma che con ogni probabilità il volto di esso che ci siamo abituati a frequentare – o semmai ad avere di fronte come obiettivo polemico – è destinato a cambiare radicalmente nei prossimi tempi, in forme per ora impossibili da immaginare, per diventare qualcosa d’altro (di minore portata almeno numericamente, di certo).

Dopo SalvaraniDue decenni dopo, sia come sia, quei processi percepiti da Tillard sono sotto gli occhi di tutti. E producono fra l’altro effetti a cascata su alcuni degli aspetti più scontati del cristianesimo. Mi sono occupato di uno di essi in un recente libro[2], e credo valga la pena di rilanciare la questione. Sono scomparsi i Novissimi, e solo qualcuno se ne accorge, ma quasi nessuno se ne preoccupa.

Un discorso screditato

Tra i caratteri più noti del cristianesimo, e tra quelli storicamente di maggiore presa popolare, ha sempre campeggiato la prospettiva di potersi procacciare una vita migliore nell’aldilà, una salvezza dal male che irrimediabilmente pervade le nostre vite. Anzi, le generazioni meno giovani conservano viva la memoria di una predicazione pressoché totalmente incentrata, da un lato, sulle realtà ultime e definitive, e dall’altro sugli scenari perennemente incombenti sul vissuto quotidiano del post-mortem, detti alla latina Novissimi (parola che, in latino, non si riferisce alle cose più nuove, ma alle cose ultime).

Così, morte, giudizio, inferno, paradiso, ma anche il purgatorio, che in realtà per il catechismo cattolico tecnicamente non ne fa parte e rappresenta anzi una pietra d’inciampo in chiave ecumenica, per lunghi secoli sono stati posti costantemente davanti agli occhi e alle menti dei fedeli cristiani come luoghi veri e propri, situati di volta in volta realmente negli abissi sotto terra o in alto, fra le nuvole nei cieli, utilizzati come spauracchi strumentalmente adattati in chiave politica e/o religiosa in quanto sempre in grado di destare nei devoti pungenti preoccupazioni, sollecitudini e timori di ogni sorta.

Gli errori della catechesi

Probabilmente anche in ragione di tali paure quotidianamente agitate nella catechesi per i bambini e nelle omelie per i loro genitori, il discorso sui Novissimi ha con il tempo finito per essere screditato, tanto che su di esso oggi è calato il silenzio, l’oblio, se non persino una vera e propria rimozione, più o meno voluta e più o meno compresa nella sua portata (in parallelo a un’altra rimozione dal sapore paradossale che ha molte cause e altrettanti effetti potenti, quella della morte). Intendiamoci, il fenomeno travalica i confini di quelle che furono in passato le terre cristiane: sono le religioni nel loro complesso, un po’ tutte e un po’ dappertutto, che si trovano oggi in un discreto imbarazzo, quando sono costrette a farlo, a parlare dell’aldilà con qualche cognizione di causa.

Non ne parliamo più?

Per rendermi conto meglio delle dimensioni di un tale fenomeno, mi sono proposto di interrogare gli specialisti del sacro che mi era più agevole raggiungere, diversi amici, presbiteri da vari anni, discutendone distesamente con una decina di loro. Campione minuscolo, senza pretese statistiche. A ogni buon conto, le riflessioni al riguardo mi hanno confermato nell’ipotesi di lavoro: le braccia si allargano, la domanda è accolta fra il curioso e il rétro e alla fine della chiacchierata si ammette che dei Novissimi e dintorni oggi non capita mai di trattare, con l’eccezione – che a ben vedere conferma la regola – delle omelie in occasione dei funerali. Durante le quali, per stessa ammissione degli interrogati, ci si limita generalmente a riprendere formule stereotipe e poco eloquenti, apprese anni prima durante gli studi teologici, con il malcelato auspicio che possano offrire un briciolo di conforto a chi rimane qui, dai familiari del defunto ai suoi amici. Le indagini sociologiche in merito, in effetti, confermano che la fede nella vita eterna è attualmente uno dei punti più controversi e meno condivisi del credo cristiano, persino da parte dei fedeli che frequentano regolarmente le celebrazioni eucaristiche domenicali[3].

Se infatti riferirsi a credenze come quelle dell’esistenza di Dio o anche della divinità di Gesù Cristo consente ancora di trovare quote abbastanza elevate di popolazione che le fanno proprie senza farsi troppi problemi, il panorama si trasforma profondamente in riferimento agli scenari relativi alla vita dopo la morte: ed è qui che “le convinzioni e le sicurezze si dimostrano decisamente più fragili”[4].

I riti funebri

Tanto che sarebbe interessante svolgere una ricerca mirata sulle persone che assistono ai riti funebri, per capire quanti vi partecipano soltanto per un comprensibile dovere di solidarietà umana e di vicinanza con la famiglia dello scomparso, e quanti invece sono realmente animati e sostenuti da una speranza di sapore evangelico nella vita eterna.

Del resto, «per molti cristiani – come scrive il fondatore del monastero di Bose, Enzo Bianchi –  l’inferno eterno plasma l’immagine di un Dio perverso, vendicatore, finanche sadico; e per i non cristiani l’inferno sembra un’Auschwitz eterna, qualcosa che solo un potere malefico potrebbe inventare»[5]. Così, è impossibile negare che la paura dell’inferno è sempre stato un argomento forte per temperamenti deboli… In sintesi: sarebbe difficile imbattersi in un argomento più inattuale dell’aldilà. Il nostro cielo è vuoto, anzi, popolato da aerei, droni, missili e nuvole ma da null’altro. Buona o cattiva notizia? Mi yodea, risponderebbe la migliore tradizione ebraica: chissà?[6] Forse si tratta di uno di quelli che Giovanni XXIII chiamava segno dei tempi, che sarebbe importante assumere come caso serio, con il quale dovremmo confrontarci (e non lo facciamo).

Il futuro è stato abolito?

Perché è accaduto tutto ciò? Colpa – o forse merito, direbbe qualcuno – dell’ondata secolarizzatrice in atto? O semmai, come asserisce chi si mostra maggiormente affezionato alle false sicurezze di un soporifero tradizionalismo che alla grande tradizione ecclesiale, di un annuncio evangelico postconciliare che sarebbe tutto incentrato sulle questioni dell’aldiqua? E/o di una (cosiddetta) rivincita di Dio che in realtà si sta rivelando sempre più come una persistenza del sacro e dei suoi orpelli nella cultura e nella società globalizzate, a dispetto di tutti i processi di secolarizzazione in corso, più che una ripresa di interesse nei confronti di Dio (il senso del quale, infatti, inteso come percezione della consistenza vitale della sua presenza o assenza, risulta in effetti largamente esterno ai canovacci culturali contemporanei)?

Ha ragione Zygmunt Bauman, quando argomenta che qualsiasi ipotesi di immortalità, come prospettiva o come pensiero, si sarebbe ormai dissolta perché il futuro è stato abolito, rimosso dal nostro campo visivo e sostituito pienamente dallo Jetztzeit (il tempo adesso) di Benjamin, tempo che non fluisce, senza continuazione o conseguenza, un presente continuo, e alla fine sostanzialmente inutile? Anzi, alla luce dei progressi delle scienze mediche, ormai “l’escatologia sarebbe stata trionfalmente dissolta nella tecnologia”[7]. Nella diagnosi baumaniana, la nostra sarebbe la prima cultura nella storia dell’umanità in cui l’apertura a un’eternità che promette di condurci alla quiete o alla beatitudine eterne non solo non appare desiderata né auspicata, ma neppure indispensabile a rendere più vivibile l’esistenza di qua.

Al di là di ogni valutazione di merito, un dato sembra indubitabile: le generazioni odierne, più o meno religiose o più o meno secolarizzate (ma in ogni caso assai poco religiose e alquanto secolarizzate), in larga maggioranza non credono in una qualche previsione di vita-dopo-la-morte, non ci pensano proprio, non la temono, né la sperano, né se ne occupano. Punto.

Del resto, guardando a diverse analisi sociologiche degli ultimi anni dedicate a misurare la temperatura della fede dei cattolici italiani (operazione complessa, ma tant’è), ciò che emerge è che, mentre la maggior parte dei nostri connazionali crede genericamente in Dio, neppure un quinto di essi confida nella risurrezione della carne (non proprio una bazzecola, bensì un elemento cardine del credo cristiano, dal cosiddetto Simbolo apostolico, “Credo la risurrezione della carne e la vita eterna”, al Simbolo niceno-costantinopolitano, “Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà”).

Le risposte

Nel rispondere sulla questione dell’aldilà, con una certa frequenza gli intervistati accennano alla loro fiducia in una presenza diffusa quanto misteriosa degli angeli; o, semmai, alla probabilità di una prossima reincarnazione, espressione introdotta nella cultura occidentale con il fenomeno dello spiritismo e con la fascinazione della svolta a Oriente[8], come se il loro più autentico desiderio fosse il ricominciare daccapo e vivere altre vite, abbracciando nuove esperienze, più che imboccare la via definitiva per il paradiso. Senza neppure immaginare che la reincarnazione in altre esistenze successive, che sarebbe più corretto chiamare ciclo delle rinascite (in sanscrito samsara) – tanto nell’hinduismo quanto nel buddhismo – rappresenta in realtà una vera e propria condanna, mentre la liberazione dal dolore, in quelle antiche e gloriose spiritualità, avviene solo grazie a una lunga disciplina interiore, fino a uscire dal samsara stesso.

Sta di fatto che problematiche in passato condivise pacificamente dal senso comune diffuso oggi vengono drasticamente rifiutate, oppure accolte e rielaborate con un misto di disincanto e scetticismo. Come se l’auspicio famoso formulato da John Lennon nel 1971 nella sua Imagine («Imagine there’s no heaven/ it’s easy if you try/ no hell below us/ above is only sky») si fosse pienamente realizzato senza particolari clamori, per la soddisfazione di una parte dell’opinione pubblica, lo sconforto di altri e il disinteresse dei più.

Un pungolo e un interrogativo

Ha scritto il teologo luterano Dietrich Bonhoeffer, all’epoca recluso nel carcere nazista di Tegel, nella sua lettera all’amico Eberhard Bethge del 30 aprile 1944: “La fede nella risurrezione non è la soluzione del problema della morte. L’aldilà di Dio non è l’aldilà delle capacità della nostra conoscenza! La trascendenza gnoseologica non ha nulla che fare con la trascendenza di Dio. È al centro della nostra vita che Dio è aldilà…”[9]. Si tratta di considerazioni fra le più alte – e più vere – della storia del cristianesimo. Un pungolo e un interrogativo, in prima battuta. Anche perché l’ipotesi- risurrezione – in genere, di solito, nell’ordinarietà delle vicende ecclesiali – ha rappresentato appunto questo: un risarcimento dovuto a esistenze ingiustamente malandate, una risposta alla fine piuttosto comoda alle contraddizioni prodotte dal comportamento umano sulla terra segnato dal virus endemico della violenza sull’altro, e anche un chiarimento inevitabile e necessario ai troppi punti interrogativi irrisolti sul senso dell’esistenza.

Personalmente non ho titoli né motivi particolari per negare che prospettive simili siano più o meno legittimamente implicate nella questione escatologica, anzi. Eppure, il trasferire tout-court una presunta vita autentica nel cosiddetto aldilà non si direbbe abbia fatto del bene al messaggio cristiano; e probabilmente non sono pochi, anzi, i danni che, sia pure involontariamente, ciò ha causato. A cominciare dall’aver ridotto questo mondo e questa terra a un puro e semplice banco di prova per l’aldilà, per continuare con la gran quantità di alienazione che ne è derivata, e dalle giustificazioni, almeno indirette, a comportamenti umani talvolta apertamente contraddittori con la parola del vangelo. Ecco, allora: “Sopporta quaggiù, tanto sarai ricompensato lassù!”. Con il corollario di un crescente disagio rispetto alle modalità esasperate con cui le dottrine escatologiche sono state proposte fino a un recente passato, a mo’ di dispositivo moralistico per incidere sulle esistenze dei fedeli, ad esempio tramite una presentazione terrificante e orrorifica della dannazione eterna.

Il disinteresse dei teologi

Ma ancora oggi l’immaginario con cui l’aldilà viene pensato, quando viene pensato nell’assordante disinteresse della maggioranza dei teologi, è assai spesso quello dei secoli scorsi, con le sue geografie, i contorni e i contrappassi di matrice dantesca (la Divina Commedia è in effetti la meravigliosa condanna cui siamo sottoposti, nel nostro immaginario occidentale di aldilà). Un tipo di approccio, annota uno specialista come il sociologo Alessandro Castegnaro, fortemente caratterizzato da contenuti descrittivi particolareggiati e realistici, che a questo punto però appare scarsamente proponibile, in particolare ai più giovani. Anche perché le raffigurazioni che esso suggerisce appaiono troppo umane e non accettabili a scatola chiusa da quel tanto di ragione scientifica che ciascuno di noi ha, bene o male, assorbito. Come possono essere verbalizzate senza un tremito, un dubbio, un’incertezza? Tuttavia esse permangono sullo sfondo delle rappresentazioni mentali, contribuendo a rendere difficile la strutturazione delle credenze[10].

In virus veritas?

E poi venne il Covid-19. La tempesta assoluta che ha colpito, nel corso dell’anno del Signore 2020, prima la Cina e poi il resto del pianeta. Non solo recidendo bruscamente innumerevoli vite umane abbandonate a una solitudine infinita proprio nel tempo del loro venir meno, ma anche consegnandoci – ben al di là dell’esito di una pur drammatica emergenza sanitaria – a un’incertezza angosciante per il futuro, individuale e collettivo.

Di fronte a un nemico invisibile ma pervasivo e potenzialmente onnipresente, impalpabile eppure tentacolare, anche senza avere particolare dimestichezza con le tesi ormai classiche di Ulrich Beck siamo stati tutti catapultati all’improvviso (all’improvviso?) in una società mondiale del rischio. E spinti a familiarizzare con richieste imperiose quali un deciso distanziamento di relazioni e il munirci di mascherine, per concederci qualche brandello residuo di vita sociale[11]. Obbligati a ridefinire le agende e invitati a rivedere radicalmente il nostro modus vivendi e le nostre priorità, scoprendoci – assai più di quanto già non sapessimo – indifesi, esposti, smarriti. Sul piano tanto esistenziale e psicologico quanto sociale ed economico. Un tempo misterioso e denso di chiaroscuri, incapace di memoria e refrattario alla speranza. Vissuto per lo più in isolamento, con il cuore in gola e il respiro sospeso.

Ecco allora che il contagio di massa causato dal coronavirus ci ha gettato in un panorama planetario in cui sono riemersi linguaggi tratti di peso dall’immaginario medievale e paure di stampo apocalittico. Ha favorito l’irruzione della morte nelle case e nelle famiglie, come presenza realissima o almeno come spauracchio costantemente incombente; e, contestualmente, ci ha costretto a ridisegnare giocoforza passaggi quanto mai delicati quali la gestione del lutto in assenza della salma del defunto e la pietas naturale verso i morenti.

Il fiato corto delle religioni di fronte alla pandemia

Di fronte all’impatto del Covid-19, le religioni – come tante altre istituzioni, forse tutte, va ammesso – hanno mostrato sorpresa, fiato corto e una lungimiranza relativa. Peraltro, era inevitabile che fosse così. La pandemia, a ben vedere, oltre a confermare il carattere definitivamente interconnesso e interdipendente del nostro abitare la terra, non ha potuto far altro che smascherare impietosamente difficoltà e contraddizioni che, in ambiti diversi, provengono in ogni caso da lontano, ampliandone la portata e facendocele toccare con mano nel nostro vissuto quotidiano. Ecco, quindi, alla rinfusa: pellegrinaggi virtuali nell’impossibilità di effettuarli dal vivo, suppliche mariane e orazioni collettive, rituali antichi ripristinati per l’occasione e persino il ricorso vaticano al dispositivo dell’indulgenza plenaria (con il corollario folle di riunioni live di gruppi e confraternite che, incuranti dei divieti e del buon senso, hanno continuato a incontrarsi mettendo in pericolo non solo i partecipanti, ma anche eventuali conviventi).

Spesso, probabilmente, più sulla linea del “proviamo anche con Dio, non si sa mai”, che credendo fino in fondo nel loro potere taumaturgico. Ma soprattutto, accanto al dilazionamento sine die di ogni attività pubblica, la sospensione delle liturgie comunitarie: fino a produrre, limitandoci all’ambito cristiano, una Quaresima, e poi una Settimana santa e una Pasqua, come mai era avvenuto nel corso della bimillenaria storia delle chiese, senza la presenza assembleare dei fedeli e nelle chiese deserte.

Papa Francesco prega da solo per il CovidCon il corpo di un vecchio papa solo e un po’ claudicante, ancor più che con la sua parola (pure schiettamente evangelica), nel contesto di una piazza san Pietro vuota di gente ed emblematicamente piovosa, il 27 marzo 2020, a rappresentare in mondovisione lo smarrimento planetario, certo, ma anche e soprattutto la convinzione pasquale che la morte, nonostante tutto, non è destinata ad avere l’ultima parola sulla vita.

In quei giorni cupi, peraltro, le rare voci pubbliche che hanno inteso discettare di novissimi l’hanno fatto per proclamare, in maniera blasfema, che quanto ci stava accadendo era un castigo divino figlio del peccato umano, delle sue deviazioni morali soprattutto in ambito sessuale, o addirittura opera diretta del diavolo, tacendo invece delle responsabilità in campo economico ed ecologico. Nulla da segnalare, per il resto, paradossalmente a fronte del profluvio di analisi e interpretazioni, a conferma del gigantesco vuoto teologico su quanto ci accadrà dopo (anzi, il dopo che è risuonato insistentemente in quei lunghi mesi è stato comprensibilmente riservato alla fine del lockdown, e non a prospettive escatologiche di qualsiasi sorta).

In questa direzione, l’impressione è che l’emergenza prodottasi nell’occasione abbia mostrato sempre più l’urgente necessità di reperire uomini e donne disponibili per quello che da qualche anno in vari ambienti si è definito dialogo della diakonìa: animato giorno dopo giorno e laicamente da gesti concreti di cura reciproca, compassione e solidarietà. Mentre creatività, responsabilità e pazienza sono alcune fra le parole d’ordine che potrebbero consentirci, chissà, di inaugurare una stagione inedita; anche se l’antica sapienza biblica ci invita alla cautela, se è vero che i salmi ricordano, con il loro sano realismo, che “l’uomo nella prosperità non comprende/ è come gli animali che periscono” (Sal 48,21).

Di fronte alla morte della paura

Di fronte a questi scenari, settantacinque anni fa, fu proprio Bonhoeffer, dal luogo di prigionia in cui fu costretto per avere investito le sue forze in un progetto-speranza, a trovare il coraggio di mettere il dito sulla piaga e di inaugurare così un capitolo inedito nella riflessione cristiana sull’aldilà. Sottolineando come i cristiani, esattamente come i credenti di altre religioni e i cosiddetti non credenti, sono chiamati a fare i conti con il limite della morte, senza scorciatoie né accessi privilegiati: perché l’esperienza di una vita buona non può mai nascere sulla base della paura di castighi futuri.

Peraltro, che il tema sia tutt’altro che assente nella cultura pop degli ultimi anni è testimoniato da pellicole intense (due titoli fra i tanti, Al di là dei sogni di Vincent Ward, del 1998, e Hereafter di Clint Eastwood, del 2010) e dagli ultimi album di due cantautori di livello internazionale come David Bowie e Leonard Cohen, usciti pochi giorni prima della loro scomparsa, nel 2016. Basti ascoltare, del primo, Lazarus (dall’album Blockstar), e del secondo You want it darker, titletrack del disco: con tanto di ritornello in ebraico, Hineni, hineni (la reazione di Abramo in Gen 22, 1, quando Dio lo mette alla prova con la richiesta di sacrificio del figlio Isacco), poi ripetute in inglese (I’m ready, my Lord) e mescolate con il testo del kaddish, la preghiera ebraica della liturgia funebre.

Una riflessione, beninteso, all’interno della quale non ci si può muovere che a tentoni, intuendo sì la vasta portata della posta in gioco ma, inevitabilmente, faticando a raccapezzarsi.

L’impotenza trasparente della comunicazione ecclesiale su tali tematiche, che come dicevo storicamente hanno rappresentato il nerbo della predicazione, della catechesi e della teologia, ne costituisce una prova evidente.

Ma già il prenderne atto non è un fatto di poco conto, anche perché apre a un’immagine del cristianesimo radicalmente diversa – e quasi tutta da ricostruire sulle macerie – rispetto al passato: un dato che la catastrofe globale provocata dal Covid-19 ha semplicemente acuito ulteriormente, facendoci toccare con mano l’estrema difficoltà di fornire risposte credibili da parte delle chiese.

Come ammette un teologo capace di parresìa come Armando Matteo: «L’antica alleanza che il cristianesimo aveva pur in qualche misura favorito tra drammatica della morte e annuncio di una felicità possibile ha fatto pertanto il suo tempo. È fuori discussione che è almeno dall’epoca della peste nera, che raggiunse l’Europa sul finire del 1347, decimandone all’incirca un terzo della popolazione, che la chiesa cattolica fa molto leva sulla paura della morte per sostenere la convenienza della fede. Quella paura non c’è più. È scomparsa, è venuta a mancare, si è spenta, si è congedata. È semplicemente morta. Sono necessarie altre antenne perché anche la parola della risurrezione non patisca un destino similare»[12].

[1] J.-M.R. TILLARD, Siamo gli ultimi cristiani?, Queriniana, Brescia 1999.

[2] B. SALVARANI, Dopo. Le religioni e l’aldilà, Laterza, Roma-Bari 2020 (da qui rielaboro le considerazioni che seguono).

[3] I dubbi e le incertezze al riguardo valgono anche per il campione dei “cattolici dichiarati”: nei praticanti gli incerti o non credenti sarebbero, in un’inchiesta di dieci anni fa, il 40%, cioè quasi la metà di chi partecipa a una liturgia (A. CASTEGNARO, “Gli uomini d’oggi credono ancora nella vita eterna?”, in CredereOggi, n. 173 [2009], pp.6-18).

[4] Ivi, p.8.

[5] E. BIANCHI, “Inferno: quel fuoco acceso dalla nostra libertà”, in Avvenire (2/12/2013).

[6] Qo 2,19; 3,21; 6,12.

[7] Z. BAUMAN, Il teatro dell’immortalità, Il Mulino, Bologna 1995, p.186.

[8] H. COX, Svolta ad Oriente, Queriniana, Brescia 1978.

[9] D. BONHOEFFER, Resistenza e resa, a cura di E. Bethge, ed. it. a cura di A. Gallas, Paoline, Cinisello Balsamo 1988, p.351.

[10] “Qualcosa, forse…”. Intervista con Alessandro Castegnaro, in Il Margine n.6 (2010), p.35.

[11] Cfr. U. BECK, La società del rischio, Carocci, Roma 2000.

[12] A. MATTEO, “La vecchiaia è finita. Siamo tutti post-mortali”, in Avvenire (4/5/2016).